L'Ufficio delle Lettere Smarrite
domenica 13 ottobre 2013
Rebi Rivale - Emergenze (2013)
Rebi Rivale presenta il secondo album, Emergenze, e mi ritrovo rapito, subito conquistato, sin dal primo ascolto. Una rivelazione. Era bello il primo album della friulana, ma qui siamo a una pagina di estrema maturità e grazia compositiva, lo scarto in avanti è notevole, sia musicalmente che nella poetica. Un album che entra di prepotenza tra i migliori dell’anno in corso, con una forza interiore e una sincerità sentita che la rendono fondamentale in questi anni di diritti negati e libertà condizionata. E questo è il tema conduttore di tutte le composizioni della cantautrice, è il nobile filo che lega le mille storie al femminile di un mondo che al genere femminile riserva quasi esclusivamente amarezze e delusioni, esclusioni e prepotenze, quando non di peggio.
Un ritmo ipnotico come l’andare lento di una carovana nel deserto introduce il primo brano, subito una vetta all’inizio di questo viaggio, ad anticipare una messe abbondante, lungo i percorsi più imprevedibili del suo sentire. “Se sarà femmina” tratta con passione grondante lacrime delle troppe libertà indisponibili per chi non ha possibilità di esternare stati e dolori, è amara la riflessione sul futuro senza futuro delle donne, arabe e non solo, visto la recrudescenza di “omicidi di proprietà” nell’italietta contemporanea e il trattamento riservato a una ministra nera. Cambia il registro nella cesura tra le tre fronti in ottonari, la diesi in due esametri e la sirma in settenari (uno ipermetro), il tutto quindi cambiando il metro senza cambiare il ritmo musicale, ma approfittando solo dell’abile e particolare cadenza vocale. Un gran pezzo, che merita citazione: “Prego / per chiedere quel perdono / perché non son nata uomo / vivrei senza alcun castigo / esisto soltanto… / Che io lo voglia o no / di un altro uomo sarò madre / e se sarà femmina / di un altro errore testimone…”
La silenziosa speranza è nei sogni e nelle leggende raccontate attraverso le generazioni, nel linguaggio segreto che incoraggia e auspica, attraverso i secoli, una possibile redenzione. Bello il lavoro di chitarra e violoncello in “Histoire noire”, una danza in dodici ottavi, che nega l’happy end canonico delle favole, svela l’artificiosità e ne capovolge lo sviluppo, marca l’irrimediabile distanza dal reale. L’orrido, nella logica dis-umana, affascina assai di più. “Una favola al contrario / Dove la redenzione è vana / e implorare non serve più a niente”. Contrappunto d’archi per “Se poi rimane”, un valzer il cui ritornello, complici la voce e un indovinato controcanto di fisarmonica, se solo passasse per radio catturerebbe le menti distratte in un battibaleno, tanto è accattivante, caldo e piacevole. Abituati a facili incomprensioni e rapide eclissi sentimentali ci sorprendiamo, impreparati, quando la bellezza e la perfezione ci sfiorano, senza limiti di tempo: “Ho creduto per così tanto / che la felicità fosse un momento / dicevo è pace in mezzo alla guerra / improvviso fulmine che sbatte a terra / Credevo giusto che fosse breve / o si sarebbe offesa d’abitudine / funziona come l’arcobaleno / che si rincorre ma non si può avere / Credevo ovvio durasse un lampo… / E se poi rimane / che nome ha l’eccezione?”Intro sospesa e complessa con gli accenti sui tempi 1, 4 e 7, per “Vuoto a rendere”, drammatica, tutta tesa sugli incroci degli archi, l’elettrica con accenti hard proprio a marcare i passaggi con più cicatrici solitarie. Un brano importante, attualissimo, mai banale: “Vorrei andarmene, posarmi a terra / è un vuoto a rendere / magari prima o poi qualcosa cambia / lasciarmi vuota, rinascere / vorrei rivivere / volare sopra me, guardare giù / lasciarmi qui / posarmi a terra piano, senza rumore / è un vuoto a rendere…”
“Cicatrice” è un brano ispirato alla storia vera di un tentato suicidio da parte della scrittrice Antonella Gatti Bardelli (per Bontempi è uscito “Il cielo capovolto”, suo romanzo autobiografico al riguardo) per troppe voglie e troppi vuoti, per male di vita e vissuti inadeguati: “Perché ogni vaso ha la sua goccia / perché ogni goccia ha il suo colore / e più di qualche gradazione / il rosso a volte un suo sapore / ché sa di ferro questa vita / come di ferro una prigione / alle caviglie le catene / e gli occhi vogliono morire…”
“L’aquilone” è un percorso a richiesta, un gioco sul tema d’amore e le sue infinite letture, disincantato, entusiasmante, deluso e ammaliante: “Mi ha detto / “l’errore è spostare lo sguardo / una disattenzione, un colpo di vento / il filo che sfugge le dita dell’ovvio” / “L’amore” cantava “va fatto volare / e poi va rincorso, seguito a distanza / va scelto nel rischio / e mai perso di vista”. “Il valzer dei veleni” rivela come dietro la beghina di paese che spande veleni a josa ci sia una vittima dello stesso pettegolezzo, delle invidie e gelosie di vicinato, delle sfrenate lingue che creano dove non sanno, vittime e carnefici a vicenda, come un Attione che da cacciatore diventa preda e finisce sbranato dai suoi cani. Una favola cosmica “Stelle per farfalle”, sulla presunzione umana di fronte alle altre creature e all’ambiente manomesso, ed ecco le profonde riflessioni di una farfalla in cattività (l’arrangiamento è curato daEmanuele Bocci, cantautore): “Perché in un’ottica più ampia / che si chiama eternità / saremo punti così piccoli / che sembreremo uguali.” Piano e archi a inquietare intorno all’attuale e urticante tema de “Il debito”, la pedofilia, sui silenzi imbarazzati e sulle assenze ingiustificate. “Musicante” è stata registrata a Catania con l’arrangiamento deiLiberadante, bello l’inserto in siciliano dentro un deandreano pezzo rutilante sulla figura del cantautore, come rivelatore delle distorsioni del reale, come narratore della magia vitale, come colui che ha il compito di gridare al mondo la nudità del re. “Il pupazzo rotto” è un caracollante pezzo sulla differenza di riflessione tra l’essere e la visione altrui, tra le proprie essenze e chi ne vorrebbe alterare gli aromi, fino a sfigurare proprio quella singolarità che ci rende unici. I Luna e Un Quarto arrangiano “Il calesse delle favole”, scritta dal treno sul treno, gli incontri, gli sfioramenti, le consuetudini, le fermate. “Iride” con gli inserti elettronici dell’arrangiamento di Giovanna Dazzi, è un brano sulla meraviglia dell’esistenza, sugli incontri che sembrano preesistere all’incontro, per quell’anomala curvatura di spazio e tempo che rivela coincidenze e sorprese, e si presterebbe anch’esso a essere trasmesso per radio, per una rara magia di melodia e parole, poesia e sonorità che affascinano e non stancano: “Noi che c’eravamo / prima di sapere chi eravamo / prima della mano mia nella tua mano / prima dei tuoi occhi. / E’ come navigare / per cent’anni fianco a fianco / sullo stesso mare e all’improvviso / togliere le vele / e poi guardarsi…”
La ghost track è “Non voglio parlare d’amore”, che inopinatamente lo fa, e lo fa bene, come non riesce chi, a parlare d’amore, è agilmente abituato: “Ho frasi nascoste / trascritte finanche / laddove memoria non può ricordare / qualcuna aspettava da sempre / di averti e poterti vestire / qualcuna è una tunica bianca spogliata / che resta a dormire / Ti osservo, ti rubo, mi incanto / sospirano gli occhi di muto guardare.” L’arrangiamento al piano è diConsuelo Orsingher, che ha costruito intorno alle parole una fitta rete di note sensibili. E io, affascinato da parole d’amore di una canzone che d’amore non è, conquistato ancora, resto rapito e ascolto.
(Alberto Marchetti)
http://www.shiverwebzine.com/2013/10/12/rebi-rivale-emergenze-2013-autoprodotto/
http://www.youtube.com/watch?v=JqujgOo5Arw
martedì 17 settembre 2013
Nella limpida e calda mattinata del 19 luglio 1943, alle ore 11 circa, Roma subì il primo terribile bombardamento da parte delle forze alleate, e iniziò per la città e i suoi abitanti il periodo peggiore del secondo conflitto, con la caduta del governo fascista, l’armistizio, la violenta occupazione militare tedesca, la deportazione degli ebrei, l’orribile strage delle Fosse Ardeatine e, infine, la liberazione. Un anno drammatico che Peppino Bolgia, allora dodicenne, ricorda con immensa commozione perché in quei mesi perse entrambi i genitori, la mamma Cristina falciata dai caccia americani che martoriavano le strade del quartiere di San Lorenzo tra un’ondata e l’altra di quel funesto bombardamento, il papà barbaramente ucciso insieme con altri 334 innocenti nelle cave di pozzolana dell’ardeatino, a marzo del 1944.
Quello che Peppino non sapeva ancora, quando a ottobre fu rinvenuto il corpo del padre riconoscibile solo per l’orologio da ferroviere che gli era stato lasciato nel taschino e per un’agendina telefonica, era che Michele Bolgia, cinquantenne impiegato della Stazione Tiburtina in servizio quasi sempre notturno, era un eroe.
Lo Stato Italiano ne ha riconosciuto valore e potenza solo nel 2010, quando il guardasala è stato insignito della postuma e meritata Medaglia d’Oro al Merito Civile, con la seguente motivazione:
“Ferroviere, in servizio presso la Stazione di Roma-Tiburtina,
durante l’occupazione tedesca contribuì
con l’apertura clandestina dei vagoni piombati
alla fuga e al salvataggio di molti deportati
destinati ai campi di concentramento
e venne successivamente ucciso alle Fosse Ardeatine.
Mirabile esempio di umana solidarietà ed elette virtù civiche,
spinte fino all’estremo sacrificio,
1943-1944,
Roma”
Egli aveva taciuto ai familiari tutti i particolari di quella sua seconda attività notturna, per somma precauzione, e quando i colleghi lo ricordarono a guerra finita e vollero porre una targa ricordo in prossimità del binario 1 della stazione, L’8 settembre del 1946, fu solo allora che i due figli, Peppino e Rosa, scoprirono le straordinarie qualità, l’audacia e l’immensa umanità del ferroviere Michele Bolgia.
Fondamentale in questi ultimi anni è stato il lavoro svolto con passione dal capitano Gerardo Severino, curatore del museo romano della Guardia di Finanza di via… che ha raccolto le informazioni necessarie per scrivere UN ANGELO AL TIBURTINO, libro di valorose memorie che ha contribuito in modo determinante a quella medaglia e a permetterci di scoprire e ricordare quelle coraggiose azioni altrimenti dimenticate.
Viviamo anni di confusa revisione dei fatti, c’è chi si ostina a paragonare partigiani e repubblichini come se essere stati da una parte o dall’altra della barricata fosse stata comune tragedia. Non è così. I cittadini sani di questa nazione, come Michele Boglia, che le circostanze assurde della violenza disumana e dell’odio razziale hanno trasformato in inaspettati eroi sacrificando spesso la propria vita, stanno ancora qui, a vigilare su quel fondamentale confine, oggi reso tanto indefinito, tra ciò che è sempre giusto e quello che non lo è né lo sarà. Mai. Immortali testimoni della verità.
Alberto Marchetti
http://www.youtube.com/watch?v=Hu27ZQhskpU
L’OROLOGIO DEL FERROVIERE
Usciva a sera
verso la Stazione
per attaccare alle
21 in punto,
e non gli
risultava un’infrazione,
lui, in ritardo, non
era mai giunto,
merito del suo
Roskopf da taschino,
un orologio di cui
si fidava
sin dalla sua
assunzione al Tiburtino,
e quello di un
secondo non sbagliava.
A luglio la
compagna, al Prenestino,
in quel terribile
bombardamento,
non tornò a casa,
lui prese Peppino
e Rosa, trovò un
altro appartamento,
nascose lo
sgomento tra i binari,
di notte, alla
Stazione Tiburtina,
visibili le
stelle, spenti i fari,
coi treni assenti
sin quasi a mattina.
La Notte del 18 ottobre
c’era
un treno merci sul
binario uno,
curioso s’accostò,
nell’aria nera
gli giunse, piano,
il pianto di un bambino.
Capì, aveva udito
degli ebrei
retati al ghetto e
negli altri quartieri,
delle violenze dei
nazisti e dei
fascisti, vili
servi di stranieri.
Si ricordò di un
avo di Orbetello
che visto
Garibaldi a Talamone
lasciò la madre e
il giovane fratello
per aiutarlo a
fare una nazione.
Se è il mezzo che
giustifica ogni fine
che fine avrebbe
fatto quel banbino?
Attento,
spaventato e col magone,
riuscì a spiombare
proprio quel vagone.
Era un giusto
Michele il ferroviere,
di quelli che non
ricorda mai nessuno,
e mentre lavorava,
certe sere,
tenendo d’occhio
quel binario uno,
scopriva un altro
treno da trasporto
e piano, senza
farsi mai scoprire,
spiombava un
carro, risoluto e accorto,
e i deportati
riuscivano a fuggire.
Fu catturato a
Piazza Cinquecento
e in carcere
conobbe il suo destino,
rese possibile il
riconoscimento
un orologio Roskopf
nel taschino
di un corpo
ritrovato senza testa
alle Fosse
Ardeatine, massacrato,
quell’orologio, nell’ora
funesta,
quando Michele
morì, s’era fermato.
sabato 2 febbraio 2013
L'ATTIMO di Alberto Marchetti
L’ATTIMO
Ci fu un momento
antico
che ero ancora
bimbo
come un azzurro
lampo
un accertarsi
sghembo,
disteso sotto il
cielo
di un lungo agosto
torrido,
poco distante il
melo
del mio solito
posto
(ogni bambino ha
un prato,
un albero e una
traccia
il suo regno
fatato
una spada, una
roccia),
lì con il naso in
alto
la luna sopra un
dito
immaginavo viaggi
sognavo
l’infinito.
Fu la coscienza,
un attimo,
di esser su una
biglia
scagliata a folle
corsa
dentro l’oscurità,
sentii la
rotazione,
il rombo dello
spazio,
la magica
vertigine
della velocità.
Ci fu un momento
antico,
a volte lo ricordo,
un attimo soltanto
d’alta
felicità
mercoledì 30 gennaio 2013
Roberto Giordi: "Gli amanti di Magritte" Raffinatezza, contamintazioni, sensibilità di Alberto Marchetti
ROBERTO GIORDI
Gli amanti di Magritte (2012)
“Gli amanti”, di Magritte, è un quadro del 1928,
anzi è una serie di quadri, surreali, con i protagonisti che tentano una vana
materializzazione della passione impossibilitati da veli che impediscono il
contatto visivo e tattile, passione cui è negata la conoscenza, la profondità,
la curiosa scoperta, il tracciamento di una via. O l’esatto contrario, ché
l’amore conosce vie che si sublimano oltre il visibile, raggiungendo perfezioni
che la materia sensoriale impedirebbe. O ancora, la morte è già qui e noi siamo
già simulacri di esistenze sofferte e allora incontrarsi diventa impossibile.
Roberto Giordi dedica al pittore belga questa opera
seconda, questo catalogo di amori imperfetti, di precarietà cosciente, di
guerra civile non dichiarata, di rifugi incerti e insicuri.
L’album è l’opera matura di un ottimo musicista,
dalla voce importante, con uno standard qualitativo che lascia soddisfatti,
avvinti alle strutture mobili e delicate, malinconiche e ricche di richiami,
catturati dalle atmosfere, concentrati sui testi sempre eccellenti diAlessandro
Hellmann, cantautore a sua volta e scrittore di poetici testi teatrali di
denuncia.
Apre l’album l’omonima canzone, una bella
intuizione armonica di Roberto che firma anche i successivi tre episodi, con il
tappeto pianistico di Stefano Bottiglieri e un bel bridge di archi che ricorda
le fascinose composizioni del Catalano dei film di Ozpetek:Ero cieco e tu /
cieca accanto a me / è l’amore che vede l’invisibile. / Qui si incontrano /
istanti e secoli / fiumi e oceani / e gli amanti di Magritte
Quando parlerò con te è malinconia sudamericana,
con le belle parole: Mi vedi? Sono qui / circondato da due frasi / magre come
dei randagi / curve come girasoli / su di te… su di te… / Quando parlerò con te
/ sarò spalancato a giorno / indifeso nell’inverno / che si sta sciogliendo
intorno… / Quando parlerò con te / non saprò cosa dire.
Tu appartieni a me è un lento struggente, teso
com’è a catturare l’inafferrabile, qualcosa che, si sa, è della stessa sostanza
con cui son fatti i sogni, con la fisarmonica sentimentale e tanghera
dell’ottimoBentivenga: Io lo so che appartieni a me / come il vento alle
rondini / come il fiume ai suoi argini / Io lo so, tu appartieni a me / come
pioggia alle nuvole…
L'inverno di bahia con un flicorno che gocciola
amore, è una bossa movimentata e quasi serena, a prescindere dal testo che
sembra comunque frutto di un pacificato distacco: Oggi sono altrove / guarda
come piove / il colore stinge via / come una fotografia / Non so se mi pensi /
non so se mi manchi / se mi hai detto una bugia / se l’inverno annega anche
Bahia…
Molto bello lo swing lento di Era d’estate, del
maestro Sergio Endrigo, al quale in fondo come tematiche si avvicina tutto
l’album del nostro.
Nella seconda parte dell’opera le composizioni
passano a Rosario di Bella, ottimo autore di colonne sonore e cantautore
conosciuto anche al pubblico del Tenco. Una seconda parte più world, con
sonorità etniche e vocalità aggiunte, ritmiche più complesse e temi ancora più
apocalittici.
Tornano i contatti con Catalano, ne La via del
deserto, con l’intervento esotico della cantante Yasemin Sannino. Atmosfere
sognanti ottenute con un attento uso dell’elettronica, un viaggio come un nuovo
“The nel deserto”, dove ritrovarsi ancora o perdersi definitivamente: Per
trovare te stesso / devi esserti perso / in un giorno qualunque / in un
qualunque deserto…
Barbari è una marcia di invasori, del passato o del
futuro, in una visione apocalittica che ricorda “The road” di Corman McCharty,
in un crescendo ritmico e teso su cui si inserisce un coro diabolico e
inquietante…ma non saranno i barbari, come nella famosa poesia di Kavafis,
proprio la soluzione?
C’era un prato è una ballata vestita di folk
orientale, un ricordo di mondi passati. In questo mondo in rapido disfacimento
la musica è finita è il pezzo senza redenzione, la canzone definitiva sulla
distruzione di cose e sentimenti, ritmiche incalzanti e parole pesanti: Ci sono
medicine / per vivere e morire / compresse per dormire / E paradisi a rate /
carri armati e aiuole / e sangue da lavare / Non c’è segno di vita / non c’è
nessuno in strada / la musica è finita.
Nel bel tango di Gatti Baciami adesso l’unico
rifugio rimane, nella sua incertezza e inaffidabilità, l’amore, in un
microcosmo che lascia fuori l’angoscia quotidiana: Guarda questo abisso d’acqua
contro i vetri / guarda questa ruggine nelle mie mani / siamo impalcature per i
temporali / inchiodati al cielo per le ali / Baciami adesso.
Habibi jesce sole è calda, arabeggiante, positiva
nell’attesa, finalmente senza troppa angoscia, dell’uscita del sole, e senza
forzature mostra come il mediterraneo, mentre per tanti è frontiera di morte e
sfruttamento, resta invece il lago tra terre amiche, simili, e questo la
cultura lo sa, araba o napoletana la parola viaggia sulle stesse onde, gli
stessi legni, le stesse note…
Il testo di Prima dell’alba è tratto dalla
descrizione di Tacito della battaglia di monte Graupio in Scozia, tra legioni
romane e caledoni, una frase che è diventata proposizione obbligata nelle lotte
contro qualsiasi imperialismo. Giordi ce la propone in un evocativo latino,
ecco la traduzione: Rapinatori del mondo, i Romani, dopo aver tutto devastato,
non avendo più terre da saccheggiare, vanno a frugare anche il mare; avidi se
il nemico è ricco, smaniosi di dominio se è povero, tali da non essere saziati
né dall'Oriente né dall'Occidente, sono gli unici che bramano con pari veemenza
di possedere tutto e ricchezze e miseria. Rubare, massacrare, rapinare, questo
essi, con falso nome, chiamano impero e là dove hanno fatto il deserto, dicono
di aver portato la pace.
Molto bello l’album di Giordi, ricco di spunti,
carico di segni, di suoni, di parole, capace di lasciarsi ascoltare con grazia
ma anche di procurare, sembra incredibile a dirsi visti i tempi, pensieri
positivi.
venerdì 18 gennaio 2013
E' Bello
E' BELLO
E' bello sentirti vicina
la voce mi abbraccia sinuosa
son tuo t'appartengo regina
mia erotica unica sposa.
E' stata improvvisa la svolta
e il sogno che senza speranza
ambivo realtà, quella porta
che volevo si aprisse alla danza,
quella selva di dubbi e paure,
quel groviglio di ansie che chiude
il dolore tra mura sicure
per non credere al nulla che illude,
tutto quanto di colpo è cambiato.
Io ti giuro mia bella signora
sarò attento a ogni singolo fiato
voglio farti felice, mi onora
esser stato per te generato,
sarò sempre il tuo fido scudiero
ti amerò anche i giorni dannati,
di accudirti sarò sempre fiero,
scalderò i tuoi piedi gelati.
Dai fiducia al mio solido amore
fammi posto nel cuore, io sarò
delicato ma forte al dolore,
sempre e ovunque ti rispetterò.
E' bello sentirti vicina
la voce mi abbraccia sinuosa
son tuo t'appartengo regina
mia erotica unica sposa.
lunedì 7 gennaio 2013
L’ISOLA CHE SE NE ANDO’
Giulia,
Nerita, Corrao, Hotham,
Graham,
Sciacca, Ferdinandea.
Nel
luglio milleottocentotrentuno
senza
che la vedesse nessuno
in una
notte nacque un’isola dal mare
tutta
nera e di forma circolare.
All’alba
i marosi e la risacca
rivelarono
quell’ettaro di terreno
davanti
alle coste di Sciacca:
la
notizia volò in un baleno.
Prima
giunsero gli scienziati
e i
pescatori un po’ meravigliati,
poi,
per volere delle autorità,
navi
da guerra approdarono là,
correvano
a prenderne possesso
perché
ai potenti, come accade spesso,
una
terra nuova, che non s’è mai vista
risveglia
sempre voglie di conquista.
Vovevano
fare di quella bellezza naturale
una
strategica nuova base militare
e i
comandanti, per ogni nazione,
piantaron
vessilli e le diedero un nome:
Giulia,
Nerita, Corrao, Hotham,
Graham,
Sciacca, Ferdinandea
Solo
un pescatore solitario
comprese
quanto fosse straordinario
che un’isola
fosse nata dal mare
e la
terra fosse tornata a creare...
I Re
volevano quel pezzo di terra
disposti
a tutto,- anche a far la guerra,
discordi,
ma nel nome del diritto,
prepararono
l’inevitabile conflitto.
I
generali nel cuore della notte
cariche
d’armi mossero le flotte.
Fu
proprio allora che l’isola pensò
d’aver
visto abbastanza, e se ne andò,
un
gran boato, un ribollire intorno,
e
quando finalmente giunse il giorno
le
spedizioni trovarono soltanto
il
mare piatto, e uno sbuffo ogni tanto.
L’isola
era tornata sotto il mare
dove
nessuno la poteva disturbare,
l’isola
era tornata sotto le onde
ed è
ancora lì che si nasconde.
Giulia,
Nerita, Corrao, Hotham,
Graham,
Sciacca, Ferdinandea
domenica 3 giugno 2012
TIVOLI tra Unesco e Cemento
Parliamoci chiaro, anche le VELE DI NAPOLI sono state
costruite con un normale permesso, secondo piano regolatore, con delibere e
atti regolari, e sicuramente è così per il quartiere ZEN DI PALERMO, e per quel
capolavoro dell'edilizia a nome CORVIALE A ROMA. Tutto avviene nella conformità
delle regole che, ove necessario, vengono cambiate, a-variate, trasformate, e
troppo spesso snaturate. il problema scusatemi, è altro, è quella che io chiamo
VISIONE DI SINISTRA DEL MONDO, insomma, è immaginare e, se possibile,
realizzare un altro mondo possibile. Il mondo che vogliono, progettano e
costruiscono quelli come Vincenzi e Baisi è un mondo che non si avvicina
nemmeno lontanamente alle concezioni più moderne dell'edilizia sostenibile, di
spazi a misura d'uomo, di vivibilità. Ed ecco il centro storico abbandonato e
le lottizzazioni selvagge. Scusate ma noto UN DRAMMATICO ERRORE nelle
spiegazioni di chi è favorevole a un'opera che sembra irrinunciabile e
irreversibile (e a tal riguardo vi richiamo al DECALOGO SULLA DEMOCRAZIA ETICA
che al punto 6 recita: DOBBIAMO AVERE SEMPRE DIFFIDENZA VERSO LE DECISIONI
IRRIMEDIABILI) un errore di fondo che è quantomeno allarmante, un'idea guida
che è rivisitazione moderna di un concetto già largamente sfruttato, malissimo,
dalla seconda guerra mondiale in poi: quella che vede nel verde selvaggio,
nella natura senza controllo, nell'ambiente naturale, qualcosa che va
controllato, regolato, sistemato, come se un pascolo fosse un errore da
correggere, uno spazio bianco da riempire, una cosa di valore inferiore alla
manipolazione utile che se ne può fare. Siamo lontani anni luce dall'Europa,
soprattutto nella salvaguardia del paesaggio. in Germania una nuova legge, in
vigore sin dal 1998, stabilisce limiti quantitativi al consumo di suolo ed
impone la compensazione ecologica preventiva per qualsiasi nuovo intervento
urbano o infrastrutturale. Se si lottizza un ettaro, a ridosso dell'esistente,
la stessa ditta dovrà curare altri tre ettari per la collettività...
impensabile qui, no? L'obiettivo del governo tedesco è quello di disaccoppiare lo
sviluppo economico dal consumo di territorio, limitando le trasformazioni
urbane al recupero e al riuso del tessuto insediativo esistente. Anche in
Italia, pur in assenza di un quadro normativo nazionale, cominciano ad emergere
dal basso esperienze virtuose di governo del territorio: è il caso del Comune
di Cassinetta di Lugagnano in Provincia di Milano che ha approvato un piano
urbanistico SENZA ALCUNA PREVISIONE DI ESPANSIONE!!! Queste bande del mattone
nostrane invece calcolano il loro tempo amministrativo in milioni di metri cubi
di cemento in atto, e deturpano il paesaggio, distruggono per sempre la
bellezza accettando, secondo regole obsolete, costruzioni invasive. Il
territorio dei comuni a est di roma sono ricchissimi di emergenze archeologiche
e paesaggistiche che aspettano, cura, recupero, pulizia e poi, perché no,
pubblicità.
sabato 2 giugno 2012
La mia casa...
Scritto quando sembrava ormai definitiva la scelta di Corcolle per la discarica di Roma...
Prima
vigilia quattordici giorni prima delle calende di giugno 2765 ab Urbe condita
Sono
mancato troppo presto, troppo per vedere completata questa visione improvvisa,
questo teatro ideale di una memoria ancora di là da venire, questa mappa
delineata nei particolari di una città invisibile, così come m’apparve in una notte
nel pieno della mia fulgida giovinezza, un’opera che ancora non ero in grado di
capire, che collaborava con la terra ma teneva conto anche del cielo, dei
solstizi, dei giochi del tempo. Troppo presto mi allontanai dal mio corpo
oltraggiato dalle stagioni, ma forse sarebbe stato presto comunque, perché
c’era ancora tanto mondo da scoprire, c’erano ancora infinite meraviglie oltre
il limes, e la vita di un uomo, anche se imperatore, non può contenere in se tutta
la sorprendente Bellezza della Terra.
Sono
mancato troppo presto, ma ho vissuto abbastanza per vedere, nelle notti di
nuovo insonni di quegli ultimi anni carichi di assenze malinconiche e rimpianti,
questi elaborati disegni della fantasia diventare espressione, trasformarsi negli
anni da ipotesi ardite ad ardite volute d’ingegno, tracce della divinità umana
rispettosamente adagiate sulle architetture del mondo, edifici e strutture
armonizzati all’andamento del suolo, raffinate volute superiori in leggiadria
alle stesse opere osservate con vivo stupore in tutte le province dell’Impero
durante i miei viaggi affamati di conoscenza, e freneticamente rielaborate e
trasformate in giochi di materia dalle braccia esperte e vigorose di sapienti
artigiani.
Troppo
presto ho dovuto affrontare il viaggio verso un altro universo, con la mia
piccola anima tormentata e soave, consapevole
però di aver reso immortali quei miei strani e visionari sogni di gioventù.
Oggi
invece, oggi voi mi offendete, e mi uccidete davvero, come non riusciste a fare
in vita, quando arrivaste ad allontanare dal mio fianco la persona più cara.
Chi non ha conosciuto la piena felicità, e l’assoluta infelicità, non potrà
comprendermi, non avrà che una pallida idea del dolore, e dell’amore, che mi
portano a tornare ogni anno in questa villa che rappresenta quanto di più
armonico e vicino alla perfezione abbia saputo e potuto produrre in vita.
Questo
ritorno, oggi, diventa forse incerto per la prima volta, e dispero di veder conservata
questa enciclopedia delle forme, questa mappa della Bellezza, dettata dall’intuìto
mondo delle forme e realizzata con le ragioni del cuore.
Le
virtù che considero fondamentali, Humanitas Felicitas Libertas, avrebbero
dovuto essere universali, adattarsi a tutta la terra, diventare paradigma per
l’uomo nuovo. Avevate sotto gli occhi questo esempio, non l’unico, certo, ma un
ottimo esempio, da sempre, perché questo fu per voi e non per me, e voi lo
distruggete, stracciate via il manifesto che avrebbe dovuto indicarvi la via, e
per l’interesse di pochi rendete vana la mia vita, mi fate perire
definitivamente. Dovreste invece far tesoro della grandezza del passato,
acquistando da lì il coraggio e la consapevolezza per produrre anche voi
qualcosa di notevole, che a sua volta, caduto in rovina, ecciti i posteri a una
nuova forma di Bellezza, voi dovreste mantenere vivi i miei sogni, insieme ai
vostri sogni, non solo per conservare il passato, ma per realizzarne le
speranze ancora vive e contenute in queste antiche composizioni di pietra
lavorata in sembianza di poesia. Altre forme avranno i volti delle bellezze di
domani, io non so immaginarle, ma sentirò
di aver contribuito allo slancio di quelle nuove architetture, se voi deciderete di non cancellare, oggi, i miei
passi diventati incerti, e di ascoltare ancora i battiti del mio cuore, lenti e
leggeri, nel vento lieve che sul sentiero tra gli ulivi vi accompagnerà nella
mia casa.
Publio
Elio Traiano Adriano
mercoledì 7 dicembre 2011
BELLA DI NULLA
La chiamavano
" Bella di Nulla"
che bella era
bella davvero
e Nulla chiamavano il padre
che il marmo
cavava alle Apuane,
giusta paga
voleva, non meno,
e per meno non
volle aver Nulla.
Bella aveva due
pupille chiare
come le chiare
acque del mare,
e il mare le era
più caro
dei suoi occhi,
col suo dire chiaro.
Lei scoprì che
ogni onda parlava
con la voce del
vento narrava
e a sentire il
sussurro del mare
imparò Bella a
raccontare.
Tutto intorno al
falò il paese
ogni sera voleva
viaggiare
con le storie di
Bella di Nulla
e all’ascolto si
fermava il mare.
Aspettava un amore
che fosse
un’ondata, un
maroso che frange,
con la voce un
soffiare di vento,
e un bel giorno
quel giorno arrivò,
uno sguardo, un
sentire contento,
e lui, un
marinaio, sposò,
dal pontile un
mattino un mazzetto
di violette
all’eterno a giurare,
una notte di furia
e passione
poi lui subito
riprese il mare.
Ogni giorno lei
entrava nel mare
e col mare
iniziava a parlare
poi la sera
davanti ai falò
quelle storie
tornava a narrare.
Capodanno sul mare
brindava
con le braci in
uno scaldino
con due calici
colmi di vino
e un bicchiere nel
mare versava.
Poi una sera un
bicchiere le cadde
dentro casa e si
spaventò,
corse al mare a al
mare gridò:
“Com’è morto,
parla ti prego,
l’uomo che di
capirti era vanto,
ora mare non sei
solo casa
ma anche chiesa e
persin camposanto”
Era notte, tirava
il libeccio
speronato fu il
suo peschereccio
da una nave
trasporto che, atroce,
non salvò chi
levava la voce
dalle onde, ma un
mozzo tornò.
Al processo era
Bella di Nulla
portava un
revolver a tamburo
ma il destino del
reo era sicuro
chè la vide, e il
suo cuor si fermò.
Tornò in spiaggia
Bella di Nulla
ogni giorno,
estate e inverno,
su un sedia sul
bordo del mare,
di quell’immensità
sulle sponde,
la trovarono lì
verso sera
poco prima della
primavera
spenta dove si
spengon le onde
col rosario mezzo
da pregare
e
negli occhi le acque del mare.
domenica 16 ottobre 2011
ER BUCATO di Alberto Marchetti (in ricordo del 16 ottobre 1943)
ER BUCATO
Io, quella mattina del
quarantatré
16 ottobre, stavo sur
terazzo….
C’è che io spesso, la
mattina presto
portavo er cesto dei
panni pe mi madre
perché le donne
facevano er bucato
e Anna c’era sempre, co
la madre,
e appena che salivo la
cercavo,
spostavo le lenzola co
la mano
facevo piano, ma ero sempre lento
lei zitta e veloce più
der vento
da dietro me tirava via
er cappello
e allora me giravo, e
poi ridevo,
e lei rideva sempre, je
piacevo...
Puro quella mattina ero
salito
e c’era ancora il buio
e stelle, tante,
me pareva de toccalle
con un dito,
pe me Anna era già
importante.
Ma ecco, ce fu un
rumore de motori
lungo la via, 6 camion,
e poi de fori
sartarono i tedeschi co
le armi,
entravano in tutti li
palazzi
e urlavano, bussavano
spaccavano
le porte se tardavi ar
chiavistello.
Mi madre insieme co
quella de anna
scennerono de sotto: “A
Mario, attento,
stai qua e cerca de non
fatte vede,
bada a Anna, e vedi ndo
metti er piede
che qua se scivola co
l’acqua de li panni.”
Quelli cominciarono a
fa scenne tutti quanti
coi sordi, e l’oro, i
panni più pesanti
adatti ar viaggio, boni
per lavoro,
e vedevamo già du
lunghe file
su un lato, de giudei,
giù ner cortile.
E lei voleva scenne e
io dicevo
“Ma no, ma dai, ma
resta insieme a me,
da qui se vede tutto,
dove vai?”
“Ma guarda” fece lei,
“E’ scesa mamma
e pure mi fratello
Antonio, e zia,
ma mica se li vonno
porta via,
me tocca andà” “Ma dove
vai, Anna”
Poi, ecco, du tedeschi
sur terazzo
Juden? No, dissi,
invece lei se scosse
la presi pe la manica,
se mosse,
due passi ‘ndietro, la
scarpa scivolò,
cadde de spalle e poi
precipitò.
Corsi giù pe le scale,
a quattro a quattro,
sartavo, urlavo, nun
capivo niente,
piagnevo e me guardavo
tutto intorno,
gli ebrei
ncolonna, intorno li tedeschi
che urlavano e
spignevano la gente,
me chiesero chi ero, me
spostarono
fuori dar mucchio e poi
andarono via.
Cercavo Anna, ma non
c’era gnente
sui serci e tutto
intorno, eppure, dio
l’avevo vista che
cascava sotto.
Non ci capivo niente.
Ero spaurito.
Poi n’ alito de vento
m’arrivò
da dietro in quella
mattinata pazza,
sapeva de panni stesi,
de pulito
come quello che sentivo
su ‘nterazza..
E ogni tanto ancora mò,
da vecchio,
quer vento torna a
famme compagnia
e io lo riconosco che è
diverso
è vento che me passa na
carezza
sur viso, me cancella
la tristezza
poi dopo un po’ se
sfila e se ne va
ma sempre er cappelo me
rifà volà
e io lo so chi è che me
lo manna,
lo so che è lei, che
quella è proprio anna.
De tutti l’ebbrei
tornarono soltanto
pochi omini, na donna,
manco un fijo,
e me domanno ancora che
è successo,
perché tanta violenza,
quer macello,
quer giorno che a partì
sembrava bello…
io, quella mattina del
quarantatré
16 ottobre, stavo sur
terazzo….
ALBERTO MARCHETTI
(ringrazio la poetessa Simonetta Bumbi per i suggerimenti sul vernacolo romano)
Settimia Spizzichino, unica donna sopravvissuta alla deportazione del 16 ottobre 1943
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